Quando la periferia era campagna, abitare nei pressi della fornace significava appartenere ad uno specifico quartiere della città, come per i marinai frequentare il porto. Un’identità che segnava il carattere di una zona urbana e marcava le differenze – economiche, sociali e culturali – che la distinguevano dalle altre. Strade di polvere e siepi di rovi lasciavano varchi di fantasia ai nostri giochi d’infanzia, senza che sirene di pixel ci infiltrassero di lusinghe a tradimento. In piena età globale, riesce oggi faticoso ricordare il tempo in cui anche il locale era composto da frammenti ancora più minuti e le occasioni di confronto erano affidate ai riti ufficiali della comunità allargata. Abitavo a pochi passi dalla fornace Panicali di Fano e l’estate, di rientro dalle nebbie padane dove i miei genitori iniziarono la loro carriera di insegnanti, era consuetudine trascorressi tutto il mio tempo di vacanza tra l’aia ed i campi della casa dei nonni paterni, mezzadri del Conte. Ciminiera, mattoni e sguardi di fatica mi stavano davanti agli occhi ogni giorno, ma non avvertivo la gravità del loro ciclico incedere. Mi lasciavo piuttosto distrarre dagli animali del cortile e dai verdi ramarri che risalivano le fronde del recinto di arbusti che faceva da confine con il giardino padronale, lungo il viottolo che portava al torrente Arzilla dove, tra i gorghi dell’ansa in quel tratto di letto, i più arditi di noi non esitavano a tuffarsi con scatti di esuberante energia e riemergere con altrettanta foga. Per tutte le estati di quel tempo. Poche, come le stagioni dell’incoscienza. Agli occhi di un bambino sfuggiva il senso di quel lavoro crudo, come l’argilla da cuocere a che diventasse mattone. Eppure se ora, a distanza di oltre mezzo secolo, mi soffermo a scrutare con insaziabile curiosità le rovine di quei luoghi dove, in tempo non lontani, si consumavano energie e vite, una ragione c’è. Anzi, più d’una. Il mio, non è soltanto mero gusto per suggestive forme estetiche, bensì pretesto per usare il mezzo fotografico come strumento di conoscenza. Soggetto e inquadratura sono scelte di parte, seppure classificabili. Non è un caso esistano i generi fotografici, ciascuno con la propria grammatica, tuttavia la forza di un racconto – è questa la fotografia – è sempre condizionata dalle parole che non possono essere dichiarate per descrivere quanto si è visto attraverso l’occhio di vetro della fotocamera.
Penso a questa, come alla ragione per cui le grandi narrazioni fotografiche portano il segno di quel felice sincretismo fra parola ed immagine che va sotto il nome di fotogiornalismo.
Altro è, invece, il tentativo di racchiudere, nella geometria bidimensionale del quadro ottico, le articolazioni di una lingua originale e distintiva che utilizzi la riproduzione meccanica per scopi eminentemente estetico-artistici. Ad entrambe le modalità va riconosciuto il merito del fare, e ciò legittima la possibilità di varianti intermedie tra le due estremità poietiche. Se è concesso schematizzare. In tutti i casi, rimane immutabile il dato materiale di partenza: il soggetto, appunto. La terra, la fornace, il mattone e la casa sono cose che hanno forgiato ogni tratto della storia umana. Concepita con ed in questi termini, la filiera del costruire evoca il mondo laborioso e creativo dell'architettura, di chi la concepisce e di chi la governa. A questo stadio della riflessione, concetti come quello richiamato dalla parola crisi aprono il varco a scenari di decadenze estreme, che pare si sia incapaci di fronteggiare se non con le armi del conflitto tra poteri invisibili - ma certi - e contro le esistenze più fragili. Le viscere di fornaci in rovina sono discariche sotterranee, dove finiscono per essere stivati rifiuti d’ogni sorta, ma questa è la sorte che tocca ad ogni architettura in abbandono. La crisi con la k iniziale, che vuol essere un rafforzativo, è condizione sempre più palese e diffusa dentro e fuori il paesaggio urbano. Avere percorso sentieri già battuti da febbrili attività produttive – in questo caso ancora più intimamente connesse con la civiltà della storia – è all’origine di queste parole, che nominano le cose per raccontare di uomini e passioni.
Lorenzo Amaduzzi
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