giovedì 26 aprile 2012
Patafisica e arte del vedere.
Krisi, economie di argilla.
Quando la periferia era campagna, abitare nei pressi della fornace
significava appartenere ad uno specifico quartiere della città, come per i
marinai frequentare il porto. Un’identità che segnava il carattere di una zona
urbana e marcava le differenze – sociali e culturali – che la distinguevano
dalle altre. Strade di polvere e siepi di rovi lasciavano varchi di fantasia ai
nostri giochi d’infanzia, senza che sirene di pixel ci infiltrassero di lusinghe a tradimento. In piena età
globale, riesce oggi faticoso ricordare il tempo in cui anche il locale era
composto da frammenti ancora più minuti e le occasioni di confronto erano
affidate ai riti ufficiali della comunità allargata. Abitavo a pochi passi
dalla fornace Panicali di Fano e l’estate, di rientro dalle nebbie padane dove
i miei genitori iniziarono la loro carriera di insegnanti, era consuetudine
trascorressi tutto il mio tempo di vacanza tra l’aia ed i campi della casa dei
nonni paterni, mezzadri del Conte. Ciminiera, mattoni e sguardi di fatica mi
stavano davanti agli occhi ogni giorno, ma non avvertivo la gravità del loro
ciclico incedere. Mi lasciavo piuttosto distrarre dagli animali del cortile e
dai verdi ramarri che risalivano le fronde del recinto di arbusti che faceva da
confine con il giardino padronale, lungo il viottolo che portava al torrente
Arzilla dove, tra i gorghi dell’ansa in quel tratto di letto, i più arditi di
noi non esitavano a tuffarsi con scatti di esuberante energia e riemergere con
altrettanta foga. Per tutte le estati di quel tempo. Poche, come le stagioni
dell’incoscienza. Agli occhi di un bambino sfuggiva il senso di quel lavoro
crudo, come l’argilla da cuocere a che diventasse mattone. Eppure se ora, a
distanza di oltre mezzo secolo, mi soffermo a scrutare con insaziabile curiosità
le rovine di quei luoghi dove, in tempo non lontani, si consumavano energie e
vite, una ragione c’è. Anzi, più d’una. Il mio, non è soltanto mero gusto per suggestive forme
estetiche, bensì pretesto per usare il mezzo fotografico come strumento di
conoscenza. Soggetto e inquadratura sono scelte di parte, seppure
classificabili. Non è un caso esistano i generi fotografici, ciascuno con la
propria grammatica, tuttavia la forza di un racconto – è questa la fotografia –
è sempre condizionata dalle parole che non possono essere dichiarate per
descrivere quanto si è visto attraverso l’occhio di vetro della fotocamera. Penso
a questa, come alla ragione per cui le grandi narrazioni fotografiche portano
il segno di quel felice sincretismo fra parola ed immagine che va sotto il nome
di fotogiornalismo.
Altro è, invece, il tentativo di racchiudere, nella
geometria bidimensionale del quadro ottico, le articolazioni di una lingua
originale e distintiva che utilizzi la riproduzione meccanica per scopi
eminentemente estetico-artistici. Ad entrambe le modalità va riconosciuto il
merito del fare, e ciò legittima la possibilità di varianti intermedie tra le
due estremità poietiche. Se è concesso schematizzare. In tutti i casi, rimane
immutabile il dato materiale di partenza: il soggetto, appunto. La terra, la
fornace, il mattone e la casa sono cose che hanno forgiato ogni tratto della
storia umana. Concepita con ed in questi termini, la filiera del costruire
evoca il mondo laborioso e creativo dell'architettura, di chi la concepisce e
di chi la governa. A questo stadio della riflessione, concetti come quello
richiamato dalla parola crisi aprono il varco a scenari di decadenze estreme,
che pare si sia incapaci di fronteggiare se non con le armi del conflitto tra
poteri invisibili - ma certi - e contro le esistenze più fragili. Le viscere di
fornaci in rovina sono discariche sotterranee, dove finiscono per essere
stivati rifiuti d’ogni sorta, ma questa è la sorte che tocca ad ogni architettura
in abbandono. La crisi con la k iniziale, che vuol essere un rafforzativo, è
condizione sempre più palese e diffusa dentro e fuori il paesaggio urbano. Avere
percorso sentieri già battuti da febbrili attività produttive – in questo caso
ancora più intimamente connesse con la civiltà della storia – è all’origine di
queste parole, che nominano le cose per raccontare di uomini e passioni.
Lorenzo Amaduzzi
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