lunedì 12 marzo 2012

Fornace Volponi.

di Massimo Raffaeli
 “I vasi sono pieni di tempo… l’anima della terra, dei colori”.
Paolo Volponi, Il lanciatore di giavellotto


  L’essere figlio di un fornaciao ha lasciato ampia traccia nell’universo percettivo della persona prima che nell’opera di Paolo Volponi. Non solo e non tanto nel fatto che ancora nei suoi ultimi giorni, dalla casa sulle mura di Urbino, quel grande scrittore poteva intravedere o almeno vagheggiare la fornace che era stata proprietà della famiglia e che ora, come allora, è il sito di una vera e propria archeologia industriale; quanto nella passione primordiale, quasi un’estasi cromatica e tattile insieme, che nel corso della propria esistenza aveva poi educato fino al pieno possesso della materia, alimentando una ininterrotta expertise sui prodotti del grande artigianato e le opere dell’arte figurativa, si trattasse di una acquaforte (con riguardo particolare all’alveo domestico, da Bartolini a Castellani, da Bruscaglia a Ceci) o degli olii corruschi del Gran Secolo di cui presto sarebbe divenuto un insigne collezionista, come peraltro sa chiunque abbia potuto visitare, a Palazzo Ducale, i lasciti della sua Donazione e gli sceltissimi maestri che finalmente la compongono, da Guido Reni a Jusepe Ribera e, chiuso dentro il più torrido bitume degli amati caravaggeschi, uno stupendo Battistello Caracciolo. È noto a tutti gli amici dello scrittore il fatto che quelle medesime tele, per lo più acquistate all’incanto (coi riti propiziatori e la pressione psicofisica da maniaco del poker quale fu viceversa Tommaso Landolfi), egli non si decidesse mai a incorniciarle e preferisse tenerle appoggiate alla parete, di fianco al suo piccolo tavolo da lavoro: soltanto così avrebbe potuto disporne in piena libertà, prenderle in mano, liberarle con le dita dal velo di polvere, sfiorarne la materia levigata dal tempo, come se avvertisse il bisogno di una sinestesia e cioè di un costante collegamento fra il tatto e la vista. Non è difficile rinvenire in una simile attitudine il tratto ereditario e persino la Stimmung di chi è vissuto, adolescente, all’ombra di una fornace, circondato da oggetti la cui bellezza o singolarità non poteva che essere tridimensionale: un oggetto da toccare inseguendone le linee sinuose, la rotondità sensuale dove i colori dello smalto, specie certe iridi azzurre marezzate di giallo, richiamavano d’acchito gli stilemi coniati nelle leggendarie fornaci umanistiche di Casteldurante.
    In un solo romanzo Volponi è voluto tornare espressamente alla couche scrivendo Il lanciatore di giavellotto (1981) che è anche il suo romanzo più deliberatamente autobiografico. Differita di un poco nello spazio e nel tempo, la vicenda si svolge a Fossombrone durante gli anni del regime fascista e il suo epicentro è la casa di un maestro vasaio, il quale possiede una fornace con annessa cava di rena sulla sponda del Metauro. Scandito nei modi di una drammaturgia familiare, si tratta tanto del romanzo di una senilità (la storia del vecchio Damiano Possanza, il mago dell’argilla, l’artigiano refrattario ai prodotti industriali, un consanguineo, viene detto, di Adolfo De Carolis) quanto del romanzo dell’apprendistato di suo nipote Damìn, la cui vocazione di artista e enfant prodige disegnatore si riconosce proprio nel legame con il nonno e nella muta, feroce, avversione a suo padre, il traditore per antonomasia, il transfuga dell’alluminio, colui che maledice l’arte del vasaio perché sedotto dall’industria e dai prodotti fatti a macchina. Qui è come se Volponi, il grande  scrittore di Urbino ma anche l’uomo che ha passato la propria esistenza nella fabbrica neocapitalistica di Ivrea, convogliasse quei due universi antitetici, quei modi diametrali di essere nel mondo e  interpretarlo, in una tensione dialettica o in uno scontro così aspro da richiamare la violenza di una faglia tellurica. Volponi sa benissimo che né il vecchio artigiano né suo nipote Damìn avranno mai un futuro, sa per diretta esperienza di manager che l’alluminio e quanto gli è connesso l’avranno vinta una volta per sempre sui cocci sublimi che Damiano Possanza progetta e dipinge siglandoli uno per uno. Tuttavia è soltanto a costui che riconosce la piena dignità dell’essere umano, affidandogli una dichiarazione di poetica che equivale a una dichiarazione d’amore e, forse, a un suo ideale testamento: “Era un maestro artigiano, quasi un artista, e come tale doveva vivere e salvarsi”.


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