martedì 13 marzo 2012
lunedì 12 marzo 2012
Fornace Volponi.
di Massimo Raffaeli
“I vasi
sono pieni di tempo… l’anima della terra, dei colori”.
Paolo Volponi, Il lanciatore di
giavellotto
L’essere figlio di un
fornaciao ha lasciato ampia traccia nell’universo percettivo della persona
prima che nell’opera di Paolo Volponi. Non solo e non tanto nel fatto che
ancora nei suoi ultimi giorni, dalla casa sulle mura di Urbino, quel grande
scrittore poteva intravedere o almeno vagheggiare la fornace che era stata
proprietà della famiglia e che ora, come allora, è il sito di una vera e
propria archeologia industriale; quanto nella passione primordiale, quasi
un’estasi cromatica e tattile insieme, che nel corso della propria esistenza
aveva poi educato fino al pieno possesso della materia, alimentando una
ininterrotta expertise sui prodotti
del grande artigianato e le opere dell’arte figurativa, si trattasse di una
acquaforte (con riguardo particolare all’alveo domestico, da Bartolini a
Castellani, da Bruscaglia a Ceci) o degli olii corruschi del Gran Secolo di cui
presto sarebbe divenuto un insigne collezionista, come peraltro sa chiunque
abbia potuto visitare, a Palazzo Ducale, i lasciti della sua Donazione e gli
sceltissimi maestri che finalmente la compongono, da Guido Reni a Jusepe Ribera
e, chiuso dentro il più torrido bitume degli amati caravaggeschi, uno stupendo
Battistello Caracciolo. È noto a tutti gli amici dello scrittore il fatto che
quelle medesime tele, per lo più acquistate all’incanto (coi riti propiziatori
e la pressione psicofisica da maniaco del poker
quale fu viceversa Tommaso Landolfi), egli non si decidesse mai a incorniciarle
e preferisse tenerle appoggiate alla parete, di fianco al suo piccolo tavolo da
lavoro: soltanto così avrebbe potuto disporne in piena libertà, prenderle in
mano, liberarle con le dita dal velo di polvere, sfiorarne la materia levigata
dal tempo, come se avvertisse il bisogno di una sinestesia e cioè di un
costante collegamento fra il tatto e la vista. Non è difficile rinvenire in una
simile attitudine il tratto ereditario e persino la Stimmung di chi è vissuto, adolescente, all’ombra di una fornace,
circondato da oggetti la cui bellezza o singolarità non poteva che essere
tridimensionale: un oggetto da toccare inseguendone le linee sinuose, la
rotondità sensuale dove i colori dello smalto, specie certe iridi azzurre
marezzate di giallo, richiamavano d’acchito gli stilemi coniati nelle
leggendarie fornaci umanistiche di Casteldurante.
In un solo romanzo Volponi è
voluto tornare espressamente alla couche
scrivendo Il lanciatore di giavellotto (1981)
che è anche il suo romanzo più deliberatamente autobiografico. Differita di un
poco nello spazio e nel tempo, la vicenda si svolge a Fossombrone durante gli
anni del regime fascista e il suo epicentro è la casa di un maestro vasaio, il
quale possiede una fornace con annessa cava di rena sulla sponda del Metauro.
Scandito nei modi di una drammaturgia familiare, si tratta tanto del romanzo di
una senilità (la storia del vecchio Damiano Possanza, il mago dell’argilla,
l’artigiano refrattario ai prodotti industriali, un consanguineo, viene detto,
di Adolfo De Carolis) quanto del romanzo dell’apprendistato di suo nipote Damìn,
la cui vocazione di artista e enfant
prodige disegnatore si riconosce proprio nel legame con il nonno e nella
muta, feroce, avversione a suo padre, il traditore per antonomasia, il
transfuga dell’alluminio, colui che maledice l’arte del vasaio perché sedotto
dall’industria e dai prodotti fatti a macchina. Qui è come se Volponi, il
grande scrittore di Urbino ma
anche l’uomo che ha passato la propria esistenza nella fabbrica
neocapitalistica di Ivrea, convogliasse quei due universi antitetici, quei modi
diametrali di essere nel mondo e
interpretarlo, in una tensione dialettica o in uno scontro così aspro da
richiamare la violenza di una faglia tellurica. Volponi sa benissimo che né il
vecchio artigiano né suo nipote Damìn avranno mai un futuro, sa per diretta
esperienza di manager che l’alluminio
e quanto gli è connesso l’avranno vinta una volta per sempre sui cocci sublimi
che Damiano Possanza progetta e dipinge siglandoli uno per uno. Tuttavia è
soltanto a costui che riconosce la piena dignità dell’essere umano,
affidandogli una dichiarazione di poetica che equivale a una dichiarazione
d’amore e, forse, a un suo ideale testamento: “Era un maestro artigiano, quasi
un artista, e come tale doveva vivere e salvarsi”.
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